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BONIFACIO VIII, Benedetto Caetani, di Anagni
(1295-1303 )

Come abbiamo letto nelle ultime righe nella biografia di Celestino V, quando questi il 13 dicembre 1294 riunito un concistoro lesse la formula della sua abdicazione preparatagli dall'ambiguo cardinale Benedetto Caetani, nella stessa Napoli (dove Carlo aveva convinto Celestino a trasferire la sede papale) si riunì il 23 dicembre il conclave. Fu brevissimo, il giorno dopo la maggioranza diede il voto proprio a Benedetto Caetani, che assunse il nome di BONIFACIO VIII.

Chiaramente prima aveva fatto di tutto, aveva colto al volo e con opportunismo il disagio che provava l'ex eremita con addosso i panni di papa, perchè schivo di ogni ambizione, lo aveva poi consigliato e infine gli aveva scritto perfino la formula dell'abdicazione. Poi si era accordato con i suoi colleghi elettori per uscire lui dal conclave papa. Dante in questa elezione ci ravvide la simonia e lo destinò all'Inferno (XXVII, 85) chiamandolo "lo principe de' novi farisei".

Dante non fu il solo, Ferreto di Vicenza cronista dell'epoca, in "La cronaca Fiorentina" narra che una volta salito sul soglio, i suoi avversari fecero girare per Roma tre libelli attribuiti a due cardinali Colonna, che accusavano Bonifacio di aver ottenuto la sede apostolica simoniacamente. 17 cardinali dei 22 che lo avevano eletto a Napoli, intervennero a queste accuse subdole, firmando una dichiarazione che tutto era proceduto regolarmente secondo le prescrizioni del conclave.

Caetani sessantenne, era un grande esperto di diritto, e proprio per questo aveva fatto una rapida carriera ecclesiastica con molte missioni di fiducia all'estero. Ciò gli era valsa l'entrata nel Sacro Collegio dei cardinali nel 1287.
Era nato ad Anagni nel 1235, apparteneva a una nobile famiglia che discendeva da Papa Gelasio II, papa per un solo anno nel 1119. Nobili ma non ricchi erano i Caetani, e quindi a Roma non erano potenti. Potenti e ricchi i Caetani lo divennero con Benedetto, che per nove anni rimase su soglio, dotando la famiglia di grandi proprietà terriere e grandi mezzi finanziari.

Suo primo atto appena eletto, pur essendo smaccatamente filo-angioino, fu quello di revocare tante bolle firmate da Celestino perchè inesperto di affari di Curia quelle erano viziate e troppe condizionate da chi gli era stato vicino a Castel Nuovo e strappato soverchie concessioni. Chiaramente si riferiva agli uomini di Carlo, e a Carlo stesso, e questi cominciò a non essere entusiasta di questo nuovo papa, che come secondo atto decide subito di trasferirsi a Roma e nella sede naturale del papato esercitare liberamente la sua missione.
Se l'angioino contava di averlo a Napoli con la speranza di poterlo dominare, come aveva fatto con Celestino, fece male i suoi conti. Così male che a Roma come sovrano lo dovette perfino accompagnare e poi presenziare al rito. Il 23 gennaio in San Pietro in una solenne giornata, con tutta Roma presente alla fastosa cerimonia, Bonifacio VIII fu incoronato. Dopo la funzione religiosa sul cavallo bianco poi fece la trionfale cavalcata fino alla basilica di San Giovanni in Laterano, con Carlo II e suo figlio Carlo Martello a tenergli le briglie.

La festa fu grande, parteciparono tutti i nobili romani, ma le insinuazioni dei subdoli avversari si fecero subito sentire; affermavano che quell'elezione era viziata perchè estorta con un' abdicazione che consideravano nulla, perchè scritta dal suo successore. Era voce di popolo, voci infamanti, forse solo pretestuose dei suoi avversari, ma quando tre cardinali francesi che a Napoli non avevano votato per il Caetani accreditarono queste voci, le insinuazioni iniziarono prima a dare fastidio, poi anche a preoccupare Bonifacio, quando a Roma corsero altre voci che qualcuno voleva convincere Celestino a recedere dai suoi propositi, convincendolo che quella bolla di abdicazione era nulla perchè viziata all'origine.

Bonifacio aveva avuto l'accortezza, che nel lasciare Napoli, si era portato dietro a Roma anche l'eremita, temendo che i malcontenti della sua elezione ma anche il popolo ammaliato dalla santità dell'uomo convincessero Celestino dell'errore che aveva fatto a rinunciare. Però a Roma Celestino non dava questi segni nè incoraggiava chi aveva quelle intenzioni, anzi aveva espresso il desiderio di tornare a fare l'eremita nei suoi monti della Maiella. Rimase sotto il controllo di Bonifacio, ma un bel giorno lasciò Roma e se ne ritornò a Sulmona accolto con una venerazione maggiore di prima; aver rifiutato un papato per far ritorno alle sue grotte, non era mai accaduto nella storia dei papi, fu accolto come un santo. Ma questa fama che si stava diffondendo diventava ancora più pericolosa e Bonifacio dopo aver consultato i suoi colleghi, questi furono del parere che lo si dovesse tenere gelosamente custodito, "per impedire che la pace e l'unità della Chiesa corressero pericolo". Celestino stava diventando una bandiera scomoda per la Curia romana. Bisognava prendere provvedimenti.

Questo lo aveva capito anche Celestino, e volendo tagliare i ponti, con Roma ma anche con il suo eremo, che era diventato più affollato di Roma stessa, scese in Puglia con l'intenzione di imbarcarsi a Bari e raggiungere qualche luogo anonimo e solitario in Grecia.
Ma era già scattata la caccia e furono gli sgherri di Carlo a fermarlo nei pressi del Gargano; con tutti i riguardi lo condussero nuovamente a Roma e di qui ad Anagni. Finì sotto la "protezione" di Bonifacio, dentro il suo palazzo. Gli fece perfino allestire un grotta simile e quella del suo eremo sulla Maiella, così il monaco poteva soddisfare la sua ascesi isolandosi nelle sue preghiere, anche se era guardato a vista e tenuto "in custodia non quidem libera sed honesta".
Ma temendo qualche colpo di mano per liberarlo, Bonifacio lo fece rinchiudere in una torre, nella rocca di Fumone, sopra Ferentino, dove l'anno dopo, il 19 maggio 1296, dopo trecentodiciannove giorni di carcere, Celestino morì. (vedi qui la Leggenda di Celestino V).

Nel frattempo Bonifacio, ben saldo sul suo trono pontificale, aveva preso altre iniziative, e una delle prime fu quella di rivedere il trattato di Junquera stipulato segretamente da Celestino con gli angioini e gli aragona (ne abbiamo parlato nella biografia di Celestino). Era convinto che il termine di tre anni stabilito per la cessione della Sicilia era troppo lungo. Voleva il Pontefice che la cessione fosse fatta immediatamente e in un convegno tenuto ad Anagni il 5 giugno del 1295 con gli ambasciatori d'Aragona, di Napoli e di Francia riuscì a far modificare nel senso che lui voleva. Giacomo col "Patto di Anagni" riconsegnava la Sicilia alla Chiesa, che la riassegnava a Carlo ma solo in affidamento, e sempre sotto la Chiesa. Il compenso di Giacomo fu l'ufficiale investitura del regno di Aragona.

Ovviamente il passaggio delle consegne della Sicilia non ci fu. Perchè in Sicilia c'erano i Siciliani. E il fiero popolo che da solo aveva saputo cacciare i Francesi, ora non intendeva essere venduto con un pezzo di pergamena. Non volevano rinunciare alla loro autonomia, da tempo riconoscevano unico signore formalmente Giacomo ma di fatto signore era il fratello Federico, già governatore dell'isola da quando il fratello era salito sul trono paterno in Aragona. La politica pontificia fece accelerare i tempi di investire ufficialmente Federico con la corona, anche perchè con quel patto di Anagni fatto da Giacomo con Carlo sembrò un tradimento. Lui che viveva in Aragona, come si permetteva di cedere la Sicilia?

Federico invece crescendo nell'isola, aveva imparato ad amar la nuova patria accettò così di farsi incoronare, dichiarandosi pronto a dare il suo sangue nella difesa dell'indipendenza della Sicilia contro Carlo, contro Bonifacio, e anche contro i suoi parenti d'Aragona (chiaro il messaggio per suo fratello). Il 15 gennaio del 1296 dal parlamento radunato nel duomo di Catania Federico fu proclamato re. Il 25 marzo 1296, giorno di Pasqua, nel duomo di Palermo i siciliani lo incoronarono col nome di Federico III, per continuità con la dinastia sveva da cui discendeva. Federico III era nato nel 1272, figlio di Costanza che era la figlia di Manfredi e nipote di Federico II.
La città era in festa, gremita di gente venuta ad assistere alla cerimonia da ogni parte dell'isola.
La cronaca di questa incoronazione e i primi atti di Federico (fra questi una moderna costituzione) e le cronache belliche che seguirono, li riportiamo in dettaglio nelle pagine storiche della "Storia d'Italia" (link a fondo pagina).

Era una bella sconfitta per il papato (e non ci fu solo questa) che firmava allegramente trattati, paci, e bolle, che però non avevano poi un'applicazione pratica; faceva e disfaceva lasciandosi guidare dalle vecchie ideologie senza avvertire che la realtà era ben diversa. Restavano però le trame, e su queste si affidò, sbagliando, chiudendo il suo pontificato con un bilancio umiliante per lui e la Chiesa.
Caetani non era nè debole nè inabile, profonda era la sua scienza giuridica, preparato in quella che noi chiamiamo "politica estera", e ci si meraviglia che concepisse ancora - come nel medio evo che stava lasciandosi alle spalle - che la sovranità papale non doveva aver limite, e che la sfera del potere ecclesiastico dovesse dilatarsi fino ad assorbire quello temporale dei re e dei principi. Egli voleva riunire nelle sue mani ambedue le spade del potere spirituale e temporale, e non volle mai riconoscere come la sua reale potenza fosse illusoria.
Non riuscì a intravedere che un'epoca stava finendo, che il Medio Evo era al tramonto, e che già si stavano profilando le grandi nazioni con il potere in mano allo Stato laico e non alla Chiesa.
Mentre a Palermo incoronavano Federico III, Bonifacio il 25 febbraio 1296 pubblicò una sconcertante bolla, la "Clericis laicos". Proibiva ai laici, sotto la minaccia della scomunica e interdetto, d'imporre qualsiasi tassa e imposta agli ecclesiastici senza il consenso della Chiesa (ricordiamo qui che gli ecclesiastici possedevano su ogni territorio immense proprietà terriere, immobili e mobili). Iniziava insomma una ostilità tra laicato e clero. Secondo le parole di Seppelt "...si impostava la grande questione, se oltre al papato, padrone assoluto dei beni della Chiesa in virtù del suo potere giurisdizionale, spettava anche allo Stato un diritto autonomo di esazione tributaria dalle sue chiese, conventi, proprietà terriere e mobiliarie". Cioè per lo Stato era in gioco addirittura la sua stessa esistenza.

Le ripercussioni oltre che in Italia, ci furono in Inghilterra, in Germania, in Francia; in quest'ultima il papa cominciò ad essere malvisto dagli stessi cardinali, rinfocolando sentimenti di autonomia in seno alla Chiesa francese; Filippo il Bello rispose perfino con due editti che isolavano (e nemmeno potevano più entrare in Francia) i legati della Curia che erano addetti alle riscossione dei tributi. Bonifacio a quel punto dovette fare marcia indietro, e quel potere dispotico che lui voleva esercitare, si rivelò non solo una tigre di carta, ma fece subire una umiliazione alla Chiesa.

Anche nella stessa Roma, esercitò questo potere dispotico, inimicandosi molti membri dell'aristocrazia, e le potenti e facoltose famiglie. I Colonna accusarono apertamente Bonifacio di non essere degno della tiara, il veemente Jacopone da Todi arrivò a chiamarlo "novello anticristo", e il 10 maggio 1297 nelle strade di Roma comparve il cosiddetto "Manifesto di Lunghezza", questo perchè era un lungo e dettagliato memoriale anti-Bonifacio, che alla fine veniva dichiarato pontefice decaduto e intimava ai fedeli di negargli l'obbedienza. Era sottoscritto dai Colonna e da diversi Spirituali.
Bonifacio andò su tutte le furie, reagì in modo violento. Con una bolla i due cardinali Colonna furono destituiti, scomunicati e "dannata la loro stirpe e dannato il loro sangue"; e quando i Colonna reagirono con un altro nuovo memoriale, il papa ordinò la confisca dei loro beni, che a Roma e dintorni non erano poca cosa. E che ovviamente vennero divisi tra i Caetani suoi parenti e qualche briciola rimasta ai tradizionali nemici dei Colonna.
Agli indomabili seguaci dei due Colonna nella loro sede di Palestrina e Zagarolo, inviò il 12 giugno una bolla minacciosa (e fu un severo monito per tutti gli altri rivoltosi). Alla prima scrisse che se non smettevano le ribellioni, avrebbe fatto deportare tutti gli abitanti, fatto radere al suolo il paese, e fondato una nuova città con nuovi abitanti nella pianura col nome di Civita Papale. Si ritornava ai metodi dei barbari che tutti avevano stigmatizzato; quando entravano in possesso di un paese o di una fortezza radevano al suolo ogni cosa fino alle fondamenta.

Roma visse gli ultimi mesi di fine secolo in una apparente pace. Le fazioni ostili per non fare la fine dei Colonna si acquietarono. Regnava la sovranità papale.
A voler far regnare questa sovranità papale anche in altre regioni, a Bonifacio gli venne il desiderio di voler dominare anche il Toscana. Questa trovandosi quasi completamente circondata da terre papali, non poteva essere per lo Stato della Chiesa, che un covo di ghibellinismo pericoloso. Come per la Sicilia, concepì anche qui di incorporare allo Stato pontificio la Toscana e quindi anche la stessa Firenze. Gli Asburgo con Alberto d'Austria non avevano ancora ricevuto la corona. A Firenze le discordie fra Guelfi e Ghibellini non si erano mai placate, e si stavano perfino accendendo quelle nuove con l'arrivo a Firenze dei Bianchi e dei Neri di Pistoia. Come di solito accadeva quando gli avversari erano soccombenti una fazione chiedeva aiuto e armi a re e principi, un'altra al papa con le sue armi spirituali. Questa situazione come sappiamo era iniziata ancora ai tempi della contessa Matilde, nè era mai cambiata.
Bonifacio si mise in testa di revocare alla Santa Sede la Toscana. Non ci voleva molto a trovare un pretesto, i torbidi erano frequenti, ad affrontarsi, Grandi e popolani era ormai cosa quotidiana. Un'azione forte Bonifacio la fece il 26 gennaio 1296, quando con una bolla indicò il capopopolo Giano "pietra dello scandalo e suscitatore di torbidi, animato da spirito diabolico e maligno, che nella città solleva la tempesta della rivoluzione, ha sconvolto la quiete, distrutta la concordia e la pace". Minacciò la scomunica e l'interdetto se i fiorentini permettevano il ritorno del tribuno.

Bonifacio avendo chiesto l'aiuto del re di Francia per appoggiare Carlo II d'Angiò nella conquista della Sicilia, pensò prima di servirsi di lui per la pacificazione di Firenze. Carlo il primo novembre entrò solennemente in Firenze come paciere "per titolo di imperio" mostrando il mandato del papa, in nome del quale egli veniva. Poi dopo aver giurato di rispettare gli Ordinamenti di Giustizia e gli Statuti, nel far ritorno al suo quartier generale affidò ai Neri la città.
Mentre il 7 novembre si eleggeva una nuova Signoria intitolando gli atti in nome di papa Bonifacio e per lui entrava in carica un suo podestà, venuto col seguito armato di Valois, con giudici, cavalieri e donzelli, si verificarono disordini in città. I Bianchi che si erano sentiti messi da parte da Carlo, ricominciarono a inveire e a scagliarsi contro i Neri, i quali tronfi dell'appoggio di Carlo risposero per le rime.
Iniziarono i primi tumulti, le prime vendette, seguirono devastazioni, incendi, saccheggi. In cielo vi era la cometa di Halley presagi di sventure. A difendere i Bianchi dalla sua nuova carica di Priore, Dante Alighieri ("Tutti li mali e tutti gli inconvenienti miei dagli infausti comizi del mio Priorato ebbero cagione e il principio"). Fu infatti bandito dalla città dopo l'opera nefanda di Valois ("con la lancia giostrò Giuda..")
L'errore grande di Bonifacio fu quello di aver inviato - fidandosi - il Valois, che invece di sedare i tumulti preferì appoggiare i Neri; ma non per fare un favore al papa ma per cercare di trascinare i Neri - e quindi Firenze e la Toscana - nell'orbita della influenza francese sottraendola al papa. Filippo il Bello infatti stava facendo di tutto per sovrapporsi a un pontefice che credeva di essere un Cesare e l'Imperatore del mondo. E come tale si comportava.

Ma la sovranità papale come la intendeva Bonifacio non doveva avere limiti, la sua potenza anche, il prestigio pure. Bonifacio le tre cose le consolidò tutte contemporaneamente con un'idea grandissima, nuova nella storia della Chiesa, nuova per Roma, singolare per tutti i cristiani d'Europa. Un'idea che servì a rinvigorire in lui la consapevolezza di avere il primato tra i sovrani della terra.
In quei giorni, un anno intero, scrive il Gregorovius "potè assaporare nella sua pienezza il senso della propria potenza quasi divina".
L'idea straordinaria fu quella di indire con una bolla del 22 febbraio 1300 il Giubileo. Il primo della storia. Si decretava un indulgenza plenaria per tutti coloro che nell'anno in corso avessero visitato le basiliche di S. Pietro e S. Paolo a Roma (che fu poi esteso in ogni futuro centesimo anno, in seguito ogni 50 anni, o in anni particolari).

Fu un avvenimento - come riferiscono i cronisti del tempo - che fece affluire a Roma da tutte le parti del mondo centinaia di migliaia di pellegrini (il Villani calcola che superarono di molto i due milioni) incrementando il turismo e in parallelo le finanze pontificie derivanti dalle altrettanto milioni di offerte. Ma ciò che rese al papa questa manifestazione religiosa quanto a prestigio fu enorme.
Quando i pellegrini assistevano alle funzioni religiose dov'era qualche volta presente anche Bonifacio, si assisteva a delle scene indescrivibili "giungevano fino al suo trono per gettarsi nella polvere davanti a lui come di fronte a un essere soprannaturale" (Gregorovius).

Fu un successo di immagine grandissimo. Di normali pellegrini, mentre i grandi sovrani a Roma non si fecero vedere, salvo il solito angioino Carlo Martello. A Bonifacio di re e principi importava poco, sotto le insegne imperiali, lui compiacendosi esclamava "Sono io il Cesare, sono io l'Imperatore".
Era una potenza illusoria, un delirio di potenza, perchè appena finito l'Anno Santo, in Francia Filippo il Bello, anche lui superbo e ambizioso, non riconosceva nessuno al di sopra di sè, pure lui nel suo regno si considerava un Cesare un Imperatore. E così entrambi impersonando questi concetti non poterono che finire in aperte ostilità. A cominciare fu però Bonifacio che con una bolla del 4 dicembre 1301 tolse al re francese alcuni privilegi che secondo lui aveva male onorato; seguì il giorno successivo un'altra bolla con la quale convocava a Roma per il novembre del 1302 in un concilio l'episcopato francese e lo stesso Filippo re di Francia, per definire una volta per tutte i rapporti tra Stato e Chiesa. E concludeva la bolla affermando che "solo il papa è stato posto da Dio; posto al di sopra di qualsiasi sovrano; per cui anche il re di Francia è sottomesso al papa".

Non sappiamo se veramente c'erano scritte queste frasi, quando la bolla fu recapitata da un legato alla corte di Francia, nel leggerla uno zelante cancelliere di Filippo, indignato da ciò che leggeva gli strappò la bolla dalle mani e la buttò fra le fiamme del caminetto. Il legato poi a memoria riportò il contenuto scritto su un banale foglio e non sappiamo se fu lui ad aggiungere quelle frasi oppure erano state veramente vergate e siglate dal papa.

Filippo reagì facendo diffondere il contenuto delle due bolle in Francia e aggiungendo che lui nelle cose temporali non si sentiva secondo a nessuno, e nel contempo invitava a Parigi nell'aprile del 1302 il clero francese agli Stati Generali. Quando si riunirono, i prelati all'unanimità approvarono una lettera da inviare al papa con la quale protestavano per le offese rivolte al re di Francia. Filippo ne approfittò per proibire all'episcopato francese di recarsi a novembre al concilio papale indetto da Bonifacio a Roma.
Il Papa tenne ugualmente il concilio, anche perchè trentanove vescovi francesi non osservando il veto posto da Filippo andarono ugualmente a Roma (al ritorno come punizione trovarono tutti i loro beni fatti confiscare dal re).
Bonifacio al concilio fu ancora più severo contro il re di Francia, e con un'altra bolla emanata nell'assemblea (la "Unam Sanctam") il 18 novembre, ribadì ancora più chiaramente i concetti espressi nella precedente bolla, e aggiunse che la "potestà spirituale deve ordinare e giudicare la potestà temporale" e che "la Chiesa ha due spade, quella spirituale e quella temporale; la prima viene condotta dalla Chiesa, la seconda per la Chiesa; quella per mano del sacerdote, questa per mano del re ma dietro indicazione del sacerdote".
Disapprovava fortemente la condotta dei vescovi francesi per il servilismo verso il sovrano e con la stessa bolla lanciava la "scomunica contro "quelli" che impediscono ai vescovi l'andata a Roma". Sembrò chiara l'allusione a Filippo.
In Francia conosciuto il tenore di quest'altra bolla ne furono tutti indignati e Filippo a quel punto convocò a Parigi un concilio generale. Si cominciò a parlare di papa illegittimo, di papa eretico, di papa simoniaco, e i Colonna che erano stati scomunicati, privati dei beni, costretti a fuggire, ma erano presenti pure loro a Parigi, all'assemblea lessero il famoso "lungo" memoriale con tutte le note accuse rivolte al pontefice. Si aggiunsero quelle di Nogaret che lo accusava di essere sodomita e di aver prima fatto abdicare e poi ucciso Celestino V per poter lui salire e rimanere sul soglio.
Insomma si stava iniziando un vero e proprio pericoloso processo a Bonifacio, e Nogaret ebbe perfino l'incarico dal re di una missione segreta a Roma per arrestare il papa e condurlo in catene a Parigi.

Bonifacio si rese conto che la situazione non volgeva a suo favore, e con una delle solite manovre di retromarcia, inviò in tutta fretta un messo in Francia per fare una precisazione: Filippo era incorso solo indirettamente nella scomunica perchè aveva impedito ai vescovi di recarsi a Roma; poi con una delle solite ambigue trame, cercò l'amicizia di Alberto d'Asburgo. Questi da tempo aveva buonissimi rapporti col re di Francia. Lui era sì re di Germania ma nessun papa l'aveva mai incoronato. Bonifacio intrigò per spezzare questa alleanza franco-tedesca; si fece avanti, il 30 aprile lo incoronò re di Germania, si fece promettere solennemente che lo avrebbe difeso contro tutti i nemici, e per tale promessa-impegno gli promise l'incoronazione imperiale e re sovrano di tutti i re della terra. L'altro accettò anche se poi non tenne fede alla promessa.
In un nuova assemblea degli Stati Generali, il re - compatto popolo e clero - decise di convocare un concilio ecumenico, nel mentre si apriva una sorta di istruttoria contro Bonifacio per valutare una vera e propria sua destituzione.

Bonifacio riunito ad Anagni respinse tutte le accuse francesi in un suo concistore, e lo terminava preparando una bolla di scomunica al re che avrebbe reso pubblica l'8 settembre 1303. Ma non fece in tempo, Nogaret in missione a Roma aveva svolto il compito assegnatogli. Preso contatti con gli avversari di Bonifacio, in prima fila i Colonna, aveva organizzato una congiura e organizzato un vero e proprio assalto al palazzo di Anagni, che avvenne il 7 settembre con il concorso anche dei cittadini di Anagni. Alla sera il palazzo - abbandonato da servi e prelati in fuga - era in mano ai congiurati. L'unico a non fuggire fu Bonifacio. Imperturbabile si vestì con tutte le sue insegne di papa, con tiara in testa, il bastone pastorale in mano, e si sedette sul trono in attesa dei drammatici eventi. L'unico a non fuggire e a non lasciare Bonifacio il cardinale Niccolò Boccasino.
L'irruzione nelle stanze papali dei ribelli era capeggiata oltre che dal Nogaret, da Sciarra Colonna; quest'ultimo dopo aver ricoperto di ingiurie Bonifacio, minaccioso gli intimò di reintegrare i due cardinali Colonna destituiti, se voleva salva la vita. Bonifacio pieno di orgoglio, fece l'indignato, respinse le condizioni e con tono sprezzante sporgendo in avanti e scoprendo la nuca gli gridò in faccia "ecco la mia testa!". Sembra - almeno così si racconta ma non ci sono serie testimonianza - che Nogaret (altri dicono Sciarra) a quel gesto di sfida abbia schiaffeggiato il papa con il suo guanto di ferro. Di sicuro è che fu maltrattato e oltraggiato, soprattutto dal Colonna.

Nogaret - com'era del resto il compito affidatogli - voleva arrestarlo e portarlo a Parigi, il Colonna invece lo voleva morto. Per decidersi su cosa fare impiegarono tre giorni con tanto imbarazzo dei loro seguaci. Nel frattempo la scena della violenza, dello schiaffo, dei maltrattamenti fatti al papa, si era diffusa fuori dal palazzo, per tutta Anagni, e i cittadini - che prima avevano favorito e partecipato perfino all'assalto - a difesa del loro illustre concittadino questa volta l'assalto lo ripeterono ma per liberare Bonifacio e mettere in fuga gli indegni cospiratori.

La sera stessa Bonifacio si affacciò a ringraziare e a benedire i suoi concittadini salvatori. Rimase ad Anagni ancora per qualche giorno, poi non sentendosi sicuro nella sua stessa città, volle far ritorno a Roma e per farlo volle mettersi sotto la protezione degli Orsini. Il 25 settembre faceva il suo ingresso a Roma scortato da quattrocento cavalieri, accolto trionfalmente dal popolo tripudiante per lo scampato pericolo. Ma lo attendeva l'ultimo suo fatale errore.
Ancora una volta Bonifacio si era fidato di persone sbagliate, gli Orsini si erano finti protettori, lo avevano scortato fino a Roma, ma poi finite le feste, non lo mollarono, lo tennero prigioniero con chissà quali oscuri progetti. Questo tradimento fu l'ultimo colpo per un papa superbo che aveva una autentica divinizzazione della propria persona.

Non sappiamo se dopo i maltrattamenti di Anagni, rimase stroncato più nel fisico oppure dopo questo tradimento stroncato più nel morale, sappiamo solo che febbri forti l'incolsero e quindici giorni dopo, l'11 ottobre, moriva. Fu sepolto a S. Pietro; a ricordarlo Arnolfo del Cambio con uno stupendo monumento nella cappella Caetani, che Bonifacio si era fatta costruire nella basilica di S. Pietro di allora.

Gregorovius così commentò quel monumento: " è il monumento del papato medievale, che le potenze dell'epoca seppellirono con lui... fu l'ultimo papa a concepire l'idea della Chiesa gerarchica dominatrice del mondo".
Come abbiamo visto in tutto il suo operato questo papa aveva una mania di grandezza.
Illudendosi di essere un grande papa che doveva essere tramandato ai posteri, aveva - con questa smodata ambizione della fama postuma - con lui ancora vivo, fatto disseminare un gran numero di sue statue in ogni luogo, a Orvieto, Bologna, Anagni, Laterano, S. Pietro e un numero infinite di chiese.
Ma invece della fama, appena spirato, i suoi nemici profanarono anche la sua morte, misero in giro voci secondo le quali sarebbe morto nella più cupa disperazione attanagliato da terribili rimorsi.

Sul suo trapasso sono state scritte tante cose, tante buone e tante cattive. Il cardinale Stefaneschi testimonio con altre sette cardinali alla dipartita scrisse che la sua morte fu tranquilla, serena, e confortato dagli ultimi sacramenti.

Ferreto da Vicenza scrisse invece che "...fu invaso da spirito diabolico, battendo furiosamente la testa contro il muro, fino a far sanguinare la testa incanutita",
Francesco Pipino nel suo "Chronicon" scrive che "nelle convulsioni si mordeva le mani come un cane". Altri raccontarono cose ignominose, che lo Scartazzini nella sua "Enciclopedia Dantesca" le riportò tutte con una certa acrimonia.
Alcuni rispolverarono la maledetta sorte che aveva predetto con una lapidaria frase Celestino V al suo carceriere "è entrato come una volpe, ha regnato come un leone, morirà come un cane".

Dante (indubbiamente anche per motivi personali, per le dolorose ripercussione che ebbero nella sua vita le lotte a Firenze causate da Bonifacio) gli diede un posto all'Inferno (XXVII, 85) chiamandolo "lo principe de' novi farisei", anche se poi indignato per la condotta di Filippo il Bello e il suo sacrilego attentato fatto ad Anagni dai suoi emissari, lo paragonò a Cristo in croce, e lo mise nel Purgatorio (Purg. XX, 86-93).
A denigrarlo, lui e la sua opera, ci si mise poi papa Clemente V, per aver lasciato il Caetani la Chiesa in uno stato pietoso a causa della sua distruttiva boria e intransigenza a oltranza, poi seguito - paradossalmente - dal breve e arrendevole pontificato del mite Benedetto XI .

Sopra abbiamo parlato delle manie di grandezza di Bonifacio, del suo culto della personalità, della magnificenza nei suoi palazzi, del fasto e della pompa (enorme in occasione del giubileo), delle statue disseminate un po' ovunque, della famosa monumentale cappella in S. Pietro che doveva accogliere le sue spoglie.
Ma non ci dobbiamo meravigliare di tutto questo, erano quelli i tempi che per affermare la superiorità sulle genti (e Bonifacio era - a suo modo - effettivamente superiore ai re e principi suoi contemporanei) gli stessi popoli valutavano il potere dalla magnificenza dei palazzi, dalle feste, dal fasto, dalla pompa, cioè dalle apparenze.
Si afferma che l'ultimo pontefice del Medio Evo fu proprio Bonifacio, e anche se espresse a dismisura la sua alta dignità rendendosi perfino odioso per la sua superbia e boria, fu poi rimpianto perchè come successori seguirono papi che espressero a dismisura la loro debolezza.

Trecento anni dopo - l'11 ottobre 1605 - nel demolire la vecchia basilica, per far posto alla nuova, fu abbattuta anche la monumentale cappella della famiglia Caetani. Nel farlo fu scoperchiato il sepolcro di Bonifacio. La sua salma apparve intatta, nel volto, nelle mani. Nessuna lesione nel cranio smentendo le secolari dicerie. Trasferito nelle grotte vaticane, anche lui cominciò ad essere venerato come un grande papa. Era quello che lui aveva sempre desiderato: la fama postuma.
Torniamo agli eventi. Con BONIFACIO VIII, era dunque finita la teocrazia e il Papato pareva che avesse esaurite tutte le sue energie...

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