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URBANO IV, Giacinto Pantaleon, di Troyes
(1261-1264 )

Alla morte di Alessandro IV avvenuta il 25 maggio 1261, gli otto cardinali che si trovavano a Viterbo che dovevano nominare un suo successore, si resero conto che ci voleva un pontefice risoluto. Non mancarono i pro e i contro, ed infatti la sofferta decisione venne con molto ritardo. Nè riuscirono a far convergere i voti su uno di loro. Bisognò aspettare quasi la fine di agosto, quando la scelta cadde sul francese Jacques Pantaleon, un elemento estraneo al Sacro Collegio.
Si stabilì di dare la tiara pontificale a un prelato non cardinale: JACQUES PANTALEON nato a Troyes nella Champagne nel 1220, da famiglia di bassa condizione, suo padre era calzolaio. Aveva studiato a Parigi ed era stato canonico a Leon e arcidiacono a Liegi. Innocenzo IV lo aveva nominato nel 1251 vescovo di Verdun e, in qualità di legato di Germania, si era fatto apprezzare per la notevole attività religiosa e diplomatica. Fornito di grande ingegno, pieno di profonda dottrina e dotato di straordinaria energia, Alessandro IV nel 1255 lo aveva inviato in Terra Santa come patriarca di Gerusalemme.

Alla morte di Alessandro si trovava in Italia per una questione inerente i Cavalieri di S. Giovanni, e fu sbigottito quando gli venne comunicata la inaspettata nomina. Che durò poco, tuttavia fece in tempo a sconvolgere l'Italia, perché poco prima di morire chiamando gli Angioini, questi anche senza di lui non se ne andarono più via.

Il nuovo pontefice prese il nome di URBANO IV, e fin dall'inizio del suo pontificato si mostrò nemico di Manfredi e continuatore della politica dei suoi predecessori. Ordinò, infatti, allo svevo di richiamare i Saraceni che, durante la Santa Sede vacante, erano penetrati nella campagna romana; bandì contro il re di Sicilia una crociata; nominò capo delle milizie papali, fra cui arruolò tutti i fuorusciti del mezzogiorno, Ruggero di Sanseverino, acerrimo nemico di Manfredi; cercò di dissuadere Giacomo D' Aragona di dare in moglie al figlio Pedro la sveva Costanza (figlia di Manfredi); e infine, il 6 aprile del 1262, rinnovata la scomunica contro il figlio di Federico, lo citò a comparirgli dinanzi per giustificarsi delle gravissime colpe di cui era accusato; che come quelle dei suoi predecessori erano tutte false, infamanti, e dato che colpivano anche la cultura, i commerci, la mondanità, le domestiche gioie, i diletti, erano anche fuori del tempo, retrograde. Tuttavia le accuse verso la "lasciva corte", erano che in quella, si "rovinavano le genti". Ma oltre le lettere papali c'erano i predicatori, i flagellanti, a spargere il terrore indicando il castigo divino sull'intera umanità, corrotta, da un insopportabile sovrano, e che quindi era "meritevole schiacciarlo".
Ma URBANO IV ben sapeva che le armi spirituali non erano sufficienti a debellare MANFREDI. Convinto che occorreva suscitare contro lo svevo un competitore valoroso, potente, ambizioso, che potesse con le sue forze togliere il regno al rivale, capeggiare il Guelfismo e mantenersi devoto alla Santa Sede, il Pontefice posò lo sguardo su CARLO D'ANGIÒ, del quale, nel 1248, in occasione della spedizione di Luigi IX in Egitto aveva ammirato il coraggio, il valore e la costanza.

CARLO era l'uomo che, più d'ogni altro, avrebbe potuto giovare alle trame della Curia romana contro Manfredi, sebbene non fosse di tal natura da rimanere, dopo il successo, assolutamente ligio ai voleri del Papato.
"Saggio, di sano consiglio e prode in arme - lo descrive il Villani - e aspro e molto temuto e riguardato da tutti i re del mondo, magnanimo e d'alti intendimenti nel fare ogni grande impresa, sicuro, in ogni avversità, fermo, e veritiero d'ogni sua promessa, poco parlante e molto adoperante, non rideva quasi mai o pochissimo; onesto come un religioso; cattolico ma aspro in giustizia e spesso feroce; grande di persona, possente come corporatura, colore del viso olivastro con un gran naso; e più che un signore nella sua imponenza pareva proprio una maestà reale; molto vegliava e poco dormiva, e usava ricordare che, dormendo si perdeva tanto tempo; era largo con i cavalieri d'arme, ma sempre bramoso di conquistare terre e signorie, oltre che essere avido di denaro necessario per le sue imprese e le sue guerre; di gente di corte, di menestrelli o giocolieri lui non si dilettò mai"
Carlo, possedeva già domini molto estesi; come principe della casa reale di Francia le contee del Maine e dell'Angiò, e come marito di Beatrice, ultima figlia del conte Raimondo, tutta la Provenza; ma la sua grande ambizione era spronata da quella ancor più grande della moglie, la quale - secondo quel che si narra - non sapeva darsi pace di esser una semplice contessa mentre le sorelle erano regine.
Con Carlo d'Angiò, il Pontefice iniziò trattative, che furono affidate alla scaltrezza dell'arcivescovo di Cosenza BARTOLOMEO PIGNATELLI. Questi, mosso da odio per Manfredi, seppe con grande astuzia rimuovere ogni difficoltà: ottenne che Edmondo d'Inghilterra rinunciasse ai diritti sul regno di Sicilia conferitigli da Alessandro IV, piegò Luigi IX di Francia, che, pur essendo ossequente alla Santa Sede, non voleva che il fratello Carlo togliesse quello che per diritto era di Corradino e riuscì a far concludere al Papa un trattato con Carlo d'Angiò, mediante il quale questi riconosceva alla Santa Sede l'alta sovranità sul regno siciliano, ne riceveva dal Pontefice l'investitura, rinunciava al possesso di Benevento e si obbligava a pagare alla Curia romana un annuo tributo di diecimila once d'oro.
E poiché durante le trattative, il partito guelfo romano aveva eletto senatore della città Carlo d'Angiò, questi giurò poi al papa di deporre la potestà senatoria appena veniva in possesso del regno siciliano.
Ciò significa che Carlo con astuzia trattava con i Romani e contemporaneamente con il papa che era decisamente contrario a quella carica di senatore. I due onori dovevano essere assolutamente divisi, e se Carlo insisteva, le trattative per l'infeudazione del Regno di Sicilia dovevano rompersi.
Le pratiche tra la Curia romana e Carlò d'Angiò non erano rimaste ignote a Manfredi. Sapeva che il rivale che la Santa Sede gli metteva di fronte era un uomo temibile ed ambizioso, e prevedeva pure che con lui si sarebbero schierati tutti i Guelfi d'Italia, ed era sicuro che, all'avvicinarsi dell'Angioino, i tiepidi amici lo avrebbero abbandonato ed avrebbero ripreso animo i numerosi occultati nemici che contava nel regno, pronti a salire sul carro di un qualsiasi suo avversario, rinnegando amicizie, fede e anche la ragione.
Volendo rafforzare la sua posizione e intimorire gli avversari prima che Carlo sarebbe sceso in campo, Manfredi, ideò un piano audace: impadronirsi di Roma e di Orvieto, dove risiedeva la corte pontificia. A tale scopo chiamò nella marca d'Ancona le milizie del conte GIORDANO; mandò PERCIVALLE d'ORIA con un forte contingente di cavalieri ed arcieri saraceni nel ducato di Spoleto; ad Ostia inviò il romano TEBALDO ANNIBALDI per chiudere la via del mare ai Guelfi di Roma; e contro di questa lanciò alcune gruppi di fuorusciti romani comandati da PIETRO DI VICO. L'impresa però ebbe un esito felice solo in parte: infatti, PERCIVALLE D'ORIA, mentre marciava su Orvieto, morì annegato nelle acque della Nera e PIETRO di VICO, giunto alle porte di Roma, fu respinto dai Guelfi.
Mentre nella marca d'Ancona due capitani delle milizie pontificie, il conte D'ANGUILLARA e dal vescovo di Verona furono sconfitti e fatti prigionieri. Ad Orvieto il Papa corse pericolo di cadere in mano delle truppe sveve con tutta la sua scorta e a stento riuscì, nel settembre del 1264, a fuggire e a rifugiarsi a Perugia.
Da questa città Urbano IV inviò un urgente appello all'angioino, ma non riuscì a vedere le armi della Francia che aveva chiamate, scendere contro lo scomunicato svevo; ammalatosi nella difficoltosa fuga da Orvieto, cessò di vivere il 3 ottobre del 1264 a Perugia, e nel duomo di Perugia fu sepolto.
Il suo pontificato non fu grande, e la chiamata di Carlo d'Angiò in Italia non giovò nè alla Chiesa nè al Regno di Sicilia. Inoltre morì senza vedere in pratica attuata nessuna delle sue iniziative.

Migliore fortuna le sue iniziative di carattere religioso e fra queste la venerazione del Sacramento Eucaristico, con l'istituzione della festa del "Corpus Domini", che però - a causa della sua morte - divenne effettiva ed operante solo dopo il concilio di Vienne del 1311.
Fece anche in tempo a decretare una ulteriore e definitiva riforma dell'Inquisizione medioevale: le inchieste dovevano essere controllate da un pubblico notaio, e le confessioni dovevano essere recepite da persone religiose prudenti, da consultarsi prima di pronunziare le sentenze.
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Dopo la morte di Urbano, avvenuta come già detto sopra il 2 ottobre 1264, i cardinali (fra l'altro quasi tutti francesi, creati appunto dal francese Urbano) che si riunirono per eleggere un successore, la decisione per la scelta del nome - anche questa volta - fu piuttosto laboriosa, e come tempi furono più lunghi dell'elezione di Urbano. Ci vollero quattro mesi. Il 5 febbraio 1265 elessero....

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