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I PAPI

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PASQUALE II, Raniero, nativo di Bieda (RA) (1054-1118)
(pontificato 1099-1118)

Morto Urbano II il 29 luglio, fu consacrato RANIERO DA BIEDA, col nome di Papa PASQUALE II.
Raniero era stato monaco a Vallombrosa poi al monastero di Cluny. Ancora durante il pontificato di Gregorio VII, inviato dall'abate Ugo per trattare questioni del monastero, giunto a Roma, il pontefice ammirò così tanto questo monaco che lo creò cardinale e lo trattenne a Roma. Morto Gregorio, Raniero sotto Urbano II divenne suo legato in Spagna. Scomparso anche Urbano, quindici giorni dopo, clero e popolo elessero Raniero portandolo di peso dalla chiesa di san Clemente alla basilica Lateranense. Il 14 agosto lo consacravano papa in san Pietro. Portato di peso, perchè lui era piuttosto avverso a questa impegnativa nomina, forse perchè era cosciente delle tensioni per la lotta per le investiture, ed era convinto di non avere nè la fermezza di un Gregorio VII, nè le energie di Urbano II.
Ed infatti il suo pontificato iniziò subito con una serie di contrasti, per le manovre insidiose del partito imperiale che seguitava ad eleggere un antipapa dopo l'altro, e una serie di lotte perchè fin dal primo momento a Raniero gli venne fuori una sorprendente indole impetuosa e combattiva. Cosicché ben presto gli avvenimenti resero illustre il suo pontificato, che ebbe l'appoggio del partito papale romano, forte del successo ottenuto con la prima crociata di Urbano, oltre l'appoggio di Matilde di Canossa; uniti l'uno e l'altra avevano allora il predominio in Italia.

In Germania lo scomunicato imperatore Enrico IV, era ovviamente ostile alla nomina di Raniero; lui e il clero tedesco erano sostenitori degli antipapi. Soprattutto di Clemente III, che alla morte di Urbano, e quindi prima dell'elezione di Pasquale, convinto di salire sul soglio, nell'attesa, si era rifugiato in Albano con l'appoggio dei conti della Campagna. Ma Pasquale appena eletto con l'aiuto delle soldatesche normanne, riuscì a farlo sloggiare da Albano; Clemente III fuggì a Civita Castellana, dove però l'anno dopo (1100) morì.
Non si arresero i seguaci filotedeschi, che a Roma non mancavano, ed elessero un altro antipapa col nome di Teodorico; ma anche questo, pensando che era meglio rifugiarsi in Germania, nel tentativo di lasciare Roma, fu fatto prigioniero dai seguaci di Pasquale e rinchiuso nel monastero di Cava dei Tirreni. Stessa sorte toccò al suo successore nella primavera del 1102, un certo Alberto che appena eletto finì catturato e confinato in una torre e poi rinchiuso nel monastero di san Lorenzo in Aversa.

"Nessuna epoca - osserva il Bertolini - presenta la storia d'Occidente così piena di contrasti e di disordini come quella che stiamo descrivendo. Il papato e l'impero in guerra fra loro; l'uno e l'altro in preda a continue turbolenze dei loro popoli e a conati sediziosi dei loro vassalli; la Chiesa esposta a continui scismi e l'impero a continue ribellioni".

Nel corso di questi primi contrasti, Enrico IV fin dalla morte di Clemente III, aveva tentato una riconciliazione con Roma, ma dopo la morte di Corrado, suo figlio ribelle, avvenuta a Firenze il 27 luglio 1102, aveva cambiato parere, sbagliando e subendo una feroce disillusione. Aveva fatto incoronare re il suo secondogenito Enrico (il futuro Enrico V) , che però ben presto gli divenne nemico più di Corrado e l'imperatore si trovò a fronteggiare una situazione difficile, che sarebbe culminata nell'aperta ribellione del figlio; quando il 12 dicembre 1104 Enrico passò nelle file degli avversari del padre. Tra padre e figlio si venne a guerra aperta.
La fine dell'anno 1105, per ENRICO IV non fu una delle più felici. Il 31 dicembre a Magonza il figlio ENRICO V, alla testa dei Principi ribelli gli andò incontro con un esercito, non solo per destituirlo ma anche per mortificarlo.
Se vogliamo prestar fede a un cronista, Pasquale II - dopo avere nel Giovedì Santo del 1103 rinnovata la scomunica contro l'imperatore - convinse il giovane re a ribellarsi al padre (stessa cosa aveva fatto Matilde con Corrado; anzi si disse che dopo averlo usato (rafforzando così in Italia un partito antitedesco) il giovane morì a Firenze avvelenato).
Enrico IV si trovava a Fritzlar, pronto a marciare contro i Sassoni, quando, nel dicembre del 1104, il figlio (come aveva fatto prima il fratello Corrado) abbandonò la corte paterna, dichiarando di non poter più vivere sotto lo stesso tetto di uno scomunicato.

Forte dell'appoggio di tutti i nemici, dell'imperatore e principalmente dei nobili della Svevia e della Baviera, il giovane ENRICO marciò contro il padre, che, radunato un esercito, si era rifugiato a Colonia. Si era dell'opinione che sulla Mosella dovesse aver luogo uno scontro tra le milizie dell'imperatore e quelle del figlio. Lo scontro però non avvenne, il ribelle, mostrando di voler riconciliare il Papa con il genitore, invitò questo ad un colloquio a Coblenza e con lui poi s'incamminò alla volta di Magonza, dove l'ignaro imperatore aveva convocata un'assemblea di principi.
Giunti però a Binggen, il giovane trascinò il padre nel castello di Bóckelheim e qui l'infelice sovrano fa fatto prigioniero con tre suoi servi, messo in una segreta, fu costretto a subire ogni sorta di privazioni e di oltraggi e a consegnare infine le insegne della sua dignità, la corona, lo scettro, la croce, la lancia e la spada, se voleva aver salva la vita.
Trasferito poi con una schiera di guardie di suo figlio al castello d' Ingelheim, invano chiese che gli si concedesse di difendersi dalle accuse che gli erano state mosse; promise che avrebbe perfino accettato la penitenza se fosse risultato colpevole; invano le suppliche, la contrita sincerità, le assicurazioni e le promesse. Dovette rinunciare al trono e ai suoi diritti in favore del figlio e ciononostante rimase suo prigioniero nel castello.
Sparsasi la notizia della violenza fatta al sovrano, l'opinione pubblica questa volta si volse a favore dell'imperatore, e questi, riuscito a fuggire con l'aiuto di alcuni fedeli, annullò l'abdicazione che gli era stata strappata con la forza e trovò un rifugio sicuro prima a Colonia, che si schierò con lui e respinse dalle sue mura il nemico, poi a Liegi, la cui cittadinanza, compreso il clero, giurò di difenderlo fino all'ultimo e accolse con scherno la tuttora permanente scomunica papale.
Eppure, da Liegi, Enrico IV scrisse lettere affettuose al figlio ribelle e ai principi infedeli; una la inviò al re di Francia, che non si può leggere senza raccapriccio quando il sovrano gli narra le sofferenze patite e la profonda amarezza per il tradimento del figlio. La lettera terminava:
"Da Liegi vi scrivo, spinto dalla fiducia che mi ispirano i vincoli familiari, da cui siamo congiunti, e quelli della nostra antica amicizia. E vi supplico in nome di questi santi legami, di non abbandonare nel suo angoscioso dolore un parente e un amico. E anche se tali vincoli non esistessero sarebbe interesse nostro e di tutti i re vendicare le ingiurie che ho ricevute e il disprezzo di cui mi hanno colmato, per cancellare dalla faccia della terra un così dannoso esempio di malvagità, d'infamia e di tradimento".
Tanti appoggi morali, tanta compassione, ma nessuno materialmente si mosse in suo aiuto e l'infelice sovrano -e questa volta l'amarezza era davvero profonda e sincera- morì l'anno dopo, il 7 agosto del 1106, forse di crepacuore. Aveva appena 52 anni. Lui, uno dei più famosi imperatori del tempo, moriva come l'ultimo dei miserabili.
Salito al trono del Sacro Romano Impero all'età di 4 anni, Enrico IV dopo aver dominato la scena politica per 40 anni, messo in discussione quella religiosa, ostentato potenza e autorità davanti a re e papi, a 52 anni finiva come un cane randagio a morire dentro una topaia. Castigato non dai nemici, ma da una azione indegna del proprio figlio.
Perchè scomunicato non gli diedero nemmeno sepoltura. Cinque anni dopo, fu necessario reclamare l'assoluzione dalla scomunica perché la povera salma del sovrano trovasse finalmente quella pace che tanti anni di vita agitata non avevano concessa al difensore strenuo e sventurato dell'impero nella lotta gigantesca contro il Papato.

Dopo che Enrico V fu incoronato dall'arcivescovo di Magonza, una nutrita ambasceria fu inviata a Roma, composta dagli arcivescovi di Treviri e Magdeburgo, dai vescovi di Bamberga, Eichstadt, Costanza e Coira, e diversi principi secolari, per invitare Pasquale II in Germania. Ma questi legati lungo la via furono catturati e messi in prigione a Trento dagli ex seguaci di Enrico IV e non giunsero mai a Roma (anche quando furono liberati mediante Guelfo duca di Carinzia, se nje tornarono in Germania). Solo Gebardo di Costanza che aveva preso un'altra strada, dopo essere entrato in Italia, con l'aiuto degli uomini di Matilde giunse fino al Papa.

Nell'ottobre del 1106 Pasquale riunì un sinodo a Guastalla, al quale presero parte i legati di Enrico V. Vi fu rinnovato il divieto delle investiture, e per l'estinzione dello scisma si provvide che tutti i vescovi e chierici ordinati durante lo scisma potevano continuare nei propri uffizi, ad eccezione degli intrusi, usurpatori di una sede non vacante, i simoniaci ed altri colpevoli di delitti manifesti. I legati del re tedesco assicurarono che il re avrebbe onorato il papa come un padre e l'invitarono in Germania. Pasquale si dispose per partire. Ma una sommossa levatasi a Verona e alcune notizie, le quali annunziavano i disegni poco benevoli del giovane re, lo trattennero dal recarsi ad Augusta. Andò invece in Francia e vi celebrò il Natale del 1106 a Cluny, mentre i suoi legati nello stesso giorno raggiungevano Enrico V a Ratisbona. Il re continuava a conferire, come prima, le investiture, incurante delle ammonizioni del papa, il quale si fece, promettere aiuto dal re di Francia contro gli oppressori della Chiesa. Poi, ricevette i messaggi di Enrico a Chàlons, sollecitando per il re il libero uso delle investiture. Pasquale diede incarico al vescovo di Piacenza di rispondere che la Chiesa di Cristo non doveva opprimersi come una schiava, e schiava abbietta diverrebbe certamente, se i vescovi dovessero essere eletti dal re. L'investitura fatta con l'anello e col pastorale da un principe secolare era un atto peccaminoso contro le leggi di Dio. I legati risposero con minacce, dicendo che avrebbero deciso a Roma la controversia con le armi. Intanto il pontefice, per mezzo di suoi fedeli ambasciatori, trattò col cancelliere del re, Adalberto. Riunì poi nel maggio del 1107 un sinodo a Troyes, pubblicandovi alcuni canoni contro le investiture fatte per mano dei laici, punendole con la deposizione sia dell'ordinato come dell'ordinante.
I legati tedeschi si facevano forti di presunti privilegi di Adriano I a Carlo Magno, e protestarono perchè le cose di Germania venivano trattate in un sinodo francese. Il papa concesse il termine di un anno per riunire un sinodo in cui il re potesse difendere le sue pretese, sempre nella speranza di un benevolo accordo. A Troyes aveva invitato i vescovi di Germania, e sospese l'arcivescovo di Magonza e parecchi suoi suffraganei, perchè non intervennero, e parteggiavano per il re.
Il papa, di ritorno dalla Francia, nell'ottobre del 1108, celebrò un sinodo a Benevento, rinnovando la proibizione per le investiture.
Prima si era dovuto occupare dei soliti contrasti a Roma. Infatti, durante la sua assenza, il prefetto Pietro, i Pierleoni, i Frangipani, uniti a Gualfredo nipote del papa, avevano con molto sforzo mantenuto l'autorità pontificia. Al suo ritorno, Pasquale fu costretto a combattere contro Stefano Corso, a Montaldo, dove si era fortificato; ma non riuscì a mettere a posto questa ribelle nobiltà romana avida di accrescere la propria potenza a spese della Chiesa. Per recarsi a Benevento, il papa dovette affidar Roma ad altri nobili, i quali non furono più fedeli dei precedenti. Tolomeo di Tuscolo si unì con Beraldo abate di Farfa e con Pietro Colonna, e si rivoltarono contro Pasquale, che ricorse alle armi del normanno Riccardo, duca di Gaeta, per rientrare in Roma, e conquistare Tivoli, roccaforte degli avversari. Pasquale si recò al Campidoglio e ottenne dal Senato la proscrizione di Stefano Corso. Dovette poi assediare Subiaco e Velletri, per mettervi un po' di pace.
Ma la pace del papa veniva turbata da Enrico V. Dopo il Sinodo di Benevento si era sparsa la falsa voce che egli avesse concesso al re tedesco le investiture. Pasquale smentì la notizia scrivendo al primate d'Inghilterra, promettendo di conservare rigidamente le sue posizioni. Intanto Enrico aveva lasciato finir l'anno senza occuparsi della questione, occupato solo negli affari di Ungheria, Polonia e Boemia. Nel 1109 chiese al papa di essere incoronato imperatore. Il pontefice lo promise a patto che il re si mostrasse ossequente alla Chiesa.
Si temeva però, con un certo fondamento, che Enrico non volesse rinunziare alle investiture. Perciò, nel sinodo lateranense del 7 marzo 1110, il papa decretò nuovamente che dovevano essere scomunicati tutti quelli che davano e ricevevano investiture, e rei di sacrilegio tutti i laici, che si erano appropriati di cose sacre e beni ecclesiastici. Ritornò poi nell'Italia meridionale per assicurarsi l'appoggio dei Normanni, suoi vassalli, sicuro di una prossima tempesta, poi rientrato a Roma si fece giurare fedeltà dai Romani.
Intanto Enrico, nell'agosto del 1110, con un forte esercito e con fedeli consiglieri, prese la via dell'Italia. Novara, che tentò di resistergli, fu da lui messa a sacco. Giunto a Roncaglia, vi tenne dieta e ricevette l'omaggio dei signori delle città Lombarde. Non quelli di Milano che rifiutarono di riceverlo e di offrirgli donativi. Matilde di Canossa, che nutriva qualche dubbio sulle buone intenzioni del re, si rinchiuse nei suo ben difeso castello. Enrico le inviò legati, ma la contessa lasciò Canossa e si rifugiò al castello di Bianello per trattare personalmente col re. Fu conclusa una pace, che permise ad Enrico di continuare il viaggio. Lucca e Firenze gli aprirono le porte. Arezzo invece ribelle venne incendiata; quindi, giunto a Sutri, intavolò laboriose trattative con i legati di papa Pasquale.
Il pontefice, dopo aver chiesto il consiglio di alcune Commissioni, fu del parere che solo la povertà della Chiesa poteva darle la libertà. Bastava che i ministri dell'altare cessassero d'essere uomini di Corte per divenire uomini di Dio, e la questione delle investiture sarebbe finita. Il principio altissimo piacque naturalmente ai rappresentanti del re. Ma la realizzazione era estremamente difficile, dato che moltissimi vescovi di Germania erano ricchissimi principi e non avrebbero volentieri rinunziato ai beni del tempo. Perciò i rappresentanti di Enrico dissero che il re non poteva sforzare quei vescovi alla restituzione delle regalie, nè spogliare le chiese. La odiosa responsabilità doveva cadere quindi sul pontefice. Infatti i legati del papa risposero che Pasquale poteva costringere i vescovi con la scomunica. Ciò che egli fece il 12 febbraio 1111.
Nel trattato che venne chiamato di Sutri si stabili: che il re nel giorno della sua incoronazione rinunzierebbe alle investiture e, ricevuta la dichiarazione del papa concernente le regalie, giurerebbe di non mai più arrogarsi investiture per l'avvenire; le chiese rimarrebbero in possesso dei beni liberi da feudo e delle oblazioni; il re scioglierebbe le sue genti da ogni giuramento a cui le avesse costrette contro i vescovi; il papa interdirebbe ai vescovi, pena la scomunica, il possesso o l'appropriarsi feudi e regalie, contee e simili ; il patrimonio di S. Pietro resterebbe inviolato alla Chiesa romana; il papa e i suoi legati godrebbero piena sicurezza nelle loro persone. Il re doveva dare garanzie ed ostaggi, e primo fra questi il nipote Federico di Hoenstaufen, che il papa avrebbe restituito il dì della incoronazione.
Il re accolse a Sutri i suoi legati di ritorno da Roma, insieme con i plenipotenziari del papa, e ratificò il trattato, con questa riserva, che fosse accettato dai vescovi e dai signori del regno. Il papa era un monaco virtuoso e aborriva dai beni della terra, ma non aveva intelletto pratico per capire che la sua riforma era prematura, cozzando con la realtà dei fatti e con la diversa spiritualità dei suoi vescovi principi. Enrico V aveva ben altri pensieri e interessi che non Pasquale, nè poteva esser lieto di riavere tanti feudi che avrebbe dovuto passare a principi secolari, sempre più pericolosi dei vescovi. Del resto i principi laici non erano favorevoli all'accordo, non volendo rimettere i feudi ricevuti dalla Chiesa, nè abbandonare investiture minori alle quali si erano abituati, sull'esempio del re.

Tutto lo spirito feudale si opponeva all'idealità di Pasquale. Enrico si maneggiò con l'astuzia; non giurò tutto l'accordo, ma solo l'ultima parte di esso.
Il sabato, 11 febbraio 1111, Enrico mise campo nelle vicinanze di Monte Mario. La seguente domenica, solennemente accolto dal clero e dal popolo, entrò in S. Pietro. Il papa lo ricevè al sommo della gradinata, e dopo averne ricevuto l'omaggio, lo abbracciò e lo introdusse nella chiesa, dove si diede inizio al rito della consacrazione. Ma quando il papa venne a raccomandare l'esecuzione dell'accordo concluso, il re protestò non essere intenzione sua di togliere alle chiese e al clero nulla di quanto avevano donato i precedenti imperatori, e richiese che si leggesse il documento papale, concernente la rinunzia delle investiture.
Dopo questa lettura, il re e i suoi prelati, avendo lungamente deliberato in segreto, gridarono contro il decreto. Enrico volle l'incoronazione, senza condizioni, cercando di far paura al papa con le minacce. Pasquale resistette; per cui il re lo fece imprigionare, contro il giuramento dato. Solo l'arcivescovo di Salisburgo Corrado e Norberto cappellano del re, che fu poi fondatore di un Ordine religioso, protestarono contro il delitto reale. Col papa furono imprigionati molti prelati, e dei cardinali scamparono solo i vescovi d'Ostia e di Tuscolo che si diedero a lavorare per la liberazione del papa.
I Romani insorsero contro lo sleale Enrico, che in una zuffa venne ferito alla fronte, mentre molti Tedeschi furono uccisi. Al terzo giorno il re uscì da Roma togliendosi il papa prigioniero.
Matilde di Canossa, sorpresa dagli avvenimenti, non abbastanza forte d'armi, mandò Arduino capitano al re, il quale maltrattava il papa confinandolo prima in un castello e poi tenendolo nel campo sotto la minaccia di far peggio.
Soltanto Roberto di Capua mandò trecento cavalieri in difesa del pontefice, ma a Ferentino furono costretti a dar di volta. Sessantun giorni Enrico tenne cardinali e papa prigioni. Che cosa avrebbe fatto e detto Gregorio VII prigione di Enrico V ?
Pasquale, senza umano appoggio, cedette alfine, sia per timore di nuovo scisma, sia perché aveva paura delle minacce di Enrico che avrebbe colpito Roma, sia per compassione verso i suoi compagni di sofferenze.
Si venne ad un accordo sommamente sfavorevole alla Chiesa. II papa acconsentiva che dopo eletti i prelati liberamente e senza simonia, ma col consenso del re, innanzi di essere consacrati, il re potesse dare loro l'investitura con l'anello e il bastone pastorale. Quanto ai fatti accaduti, anzi per ogni altro caso, il re non dovesse mai venire scomunicato.
Dall'11 al 13 aprile del 1111, si discusse a lungo su questo accordo, che poi fu giurato in nome del papa da sedici cardinali di tutti i gradi, e in nome del re da tredici signori ecclesiastici e secolari: ed insieme fu promessa pace ai Romani. Dopo ciò Enrico V il 14 aprile, entrò in Roma, dove il papa lo incoronò solennemente imperatore, ma la cerimonia non fu salutata da alcun cenno di gioia. Tutte le porte di Roma rimasero sbarrate, così che la moltitudine, di là dalle mura, accompagnava l'incoronazione, che avveniva fuori della città, con maledizioni contro il re, che aveva strappato il diadema al papa, come un ladro.
Appena incoronato, Enrico, sempre diffidente, prese ostaggi, andò al suo campo, levò le tende, trionfalmente mosse verso la Toscana, lasciò dietro di sede Roma che non aveva conquistato, ma che pure aveva domato al voler suo, e lasciò il clero sbigottito; lui, lieto del decreto papale, strappato con audacia, ritornava verso il suo Paese. Il suo incontro con Matilde di Canossa fu dei più cordiali. La contessa, già di malferma salute con suoi sessantacinque anni, non avrebbe ancora vissuto a lungo ed Enrico desiderava diventarne l'erede. Matilde, che nell'atto di donazione alla Santa Sede aveva conservato la più ampia libertà di alienare e di disporre per testamento dei beni donati, poteva ora concedere al re Enrico la successione dei beni suoi. Il che difatti avvenne nel 1115 alla morte di Matilde, senza che la Santa Sede protestasse.
Solo con la morte di Enrico, estintasi la casa di Franconia, i papi elevarono i propri diritti. Alcuni storici del resto dubitano della pretesa eredità di Enrico, e non si spiegano come la contessa abbia trattato così benevolmente chi aveva fatto violenza al papa. Ma è difficile sapere se i fatti romani vennero riferiti come erano avvenuti in realtà, alla donna che aveva lottato una vita per la causa di Gregorio VII, che ora pareva perduta.
L'imperatore se ne tornò in Germania, dopo aver nominato sua vicaria per la Liguria la contessa Matilde.
In Roma intanto si sollevò un turbine d'indignazione nel partito gregoriano. Molti, e in particolare i cardinali di Ostia e di Tuscolo, rigettavano il trattato, come vergognoso ed illecito; altri lo dicevano nullo perchè estorto; ma c'erano anche quelli che lo difendevano.
La reazione delle gerarchie ecclesiastiche, sconfessarono il papa, accusato di voler conservare solo la propria sovranità in quanto capo sello Stato della Chiesa, e chiedevano di rifiutare l'incoronazione a Enrico. In Francia alcuni sinodi lo condannarono senz'altro.

Il papa, profondamente amareggiato, cercava in qualche modo di revocarlo, senza però rompere il giuramento fatto all'imperatore; l'irritazione giunse a tal punto che molti cardinali fanatici attaccarono con violenza la persona del pontefice. Egli invano scriveva delle lettere piene di zelo per stabilire un po' di calma. Prese anche in considerazione di abdicare. Il giorno 18 marzo del 1112 radunò in Laterano un concilio, descrisse ciò che aveva sofferto, disse come fosse stato costretto ad accettare quella transazione; confessò che il privilegio era stato cosa contraria al giusto, ma protestò che egli doveva lasciare al concilio l'ultima risoluzione. Con una solenne professione di fede confermò la sua ortodossia, che in quel trambusto di cose venne messa in dubbio. Allora, conforme al consiglio di Gerardo vescovo di Angoulème, il privilegio fu dichiarato nullo perchè estorto, ma, per rispetto al giuramento del papa, furono risparmiate le censure ad Enrico. Il decreto, sottoscritto da dodici arcivescovi, centoquattordici vescovi, quindici cardinali preti e otto cardinali diaconi, fu recato all'imperatore da un cardinale e dal vescovo Gerardo ; ma quegli non se ne dette pensiero.
Così con molta facilità si disfece un trattato ottenuto con le minacce. Pasquale era un sacerdote buono e seppe perdonare; non volle scomunicare. Se avesse preferito la morte alle imposizioni di Enrico, o se fosse disceso dal trono prima del concilio lateranense, sarebbe apparso uomo più grande. Rimase papa, e seguì la via dolorosa delle umiliazioni, in mezzo alle quali ci sembra pontefice pio e buono.
In Francia molti zelanti furono scontenti di questo decreto, perchè il papa non aveva scomunicato l'imperatore. Guido arcivescovo di Vienna e parente dell'imperatore, il cardinale Conone di Palestrina, legato del papa in oriente, in diversi sinodi ed in quello di Gerusalemme, fecero quello che Pasquale non volle fare. Così avvenne in Germania nel 1115. Qui, dal 1114, Enrico V incontrava molte resistenze e non aveva potuto vincere quella della città di Colonia e del suo arcivescovo Federico. Adalberto, già suo cancelliere, da lui sollevato ad arcivescovo di Magonza, gli si ribellò e fu imprigionato. Così Enrico iniziò ad attirarsi contro l'odio degli ecclesiastici. Molti, specialmente i principi sassoni, si rallegrarono della scomunica lanciatagli dalla Francia e fecero lega con la città di Colonia. Il cardinal Teodorico, l'8 settembre 1115, senza speciale mandato del papa, pronunciò a Goslar sentenza di scomunica contro l'imperatore e rimise l'arcivescovo di Magdeburgo e altri Sassoni nella comunione della Chiesa.
Enrico capì la minaccia, sentì l'abbandono dei vescovi e chiamò gli avversari per una dieta a Magonza il 1° novembre 1115. Pensava intanto di scendere in Italia per impossessarsi dei beni della contessa Matilde, morta pochi mesi prima, il 24 luglio.
A Magonza giunsero pochi principi. I cittadini assediarono nel suo palazzo l'imperatore, liberando il loro arcivescovo, Adalberto, che poi, verso Natale, andò a Colonia a presiedere un'assemblea di principi. Enrico, tradito da altri suoi fedeli, all'inizio del 1116 passò le Alpi, ebbe aiuti in Lombardia, occupò i beni matildini, e prima di scendere a Roma, mandò avanti Ponzio, abate di Cluny, per riconciliarsi col papa.

Intanto a Roma il pontefice era turbato dalle lotte delle fazioni. La Pasqua del 1116 fu sconvolta dai tumulti sanguinosi che volevano imporre a Pasquale come prefetto Pietro, figlio del prefetto della città dello stesso nome, morto sulla fine di marzo. Il papa diede invece quella dignità ad un figlio di Pierleone. La nobiltà si ribellò e Pasquale fu costretto a fuggire ad Albano, ma rientrato non fu più fortunato nella lotta contro gli avversari, e dovette fuggire di nuovo nelle torri di Sezze, sui monti Volsci. Nell'estate la guerra delle fazioni cessò, e Pasquale potè rientrare a Trastevere non prima di aver nominato Pietro prefetto. La nobiltà trionfava.

Però adesso veniva l'imperatore, e il povero pontefice prendeva nuovamente la fuga, ricoverandosi a Montecassino e a Benevento. Beraldo abate di Farfa, Giovanni Frangipani e Tolomeo si posero alla parte di Enrico, che giunto a Roma fu ricevuto dai Romani. Nel giorno di Pasqua del 1117 si recò a S. Pietro, riunì un parlamento, cui intervennero anche alcuni cardinali, parlò di pace, e biasimò l'assenza del papa. I cardinali risposero con un coraggioso discorso, nè vollero mettergli la corona, secondo il rito delle grandi solennità. Questo atto solenne venne però compiuto dall'ambizioso Burdino, e Roma anche questa volta fece festa.
Frattanto il papa teneva un concilio a Benevento, nel quale scomunicava lo stesso Burdino arcivescovo di Braga, già legato del papa.
Nel Sinodo di Ceperano dell'ottobre 1114 aveva dato l'investitura delle Puglie e delle Calabrie al nuovo duca dei Normanni Guglielmo; in quello di Troia del 1115 stabilì tra i Normanni la "tregua di Dio". A sue istanze, ora, il principe di Capua mandò milizie nelle terre romane, ma non riuscirono ad arrivare a Roma. Nell'autunno del 1117 Pasquale potè muovere da Benevento con un esercito maggiore, e avanzarsi fino ad Anagni. Il papa, vecchio e infermo, celebrò le feste di Natale a Palestrina, sotto la protezione di Pietro Colonna; fu ricondotto a Roma, dove le fazioni ancora si combattevano le une contro le altre. I Romani stesero le mani al papa e già si preparavano ad espugnare S. Pietro, dove era trincerato il prefetto, quando il papa colpito da un grave malore, la vita iniziò rapidamente a fuggirgli via.

Ciononostante esortò i cardinali alla concordia ed a resistere ai Tedeschi che volevano opprimere la Chiesa, poi nella notte del 21 gennaio 1118, otto giorni dopo, cessò di vivere e di soffrire, in un edificio prossimo alla porta di bronzo di Castel Sant'Angelo, e fu sepolto in Laterano, perché S. Pietro era in mano dei suoi nemici. Il suo fu un pontificato pieno di miserie e di tumulti. Nessun mausoleo ricorda lo sventuratissimo papa. Eppure egli restaurò S. Bartolomeo nell'isola Tiberina e S. Adriano nel Foro; S. Maria in Monticelli e probabilmente S. Clemente, di cui era stato cardinale. Rinnovò la chiesa dei Santi Quattro Coronati sul Celio che l'incendio normanno aveva distrutta. La consacrò il 20 gennaio, poco tempo prima dell'ultima sua fuga. Nonostante le lotte che ebbe a combattere durante tutto il suo periodo fu sempre impegnato a edificare in Roma.

Pasquale da Anagni, il 10 ottobre del 1117, aveva concesso a Ruggero II conte di Sicilia ciò che Urbano aveva dato al padre, il privilegio, cioè, la legazione pontificia nell'isola. Contro Filippo I re di Francia che, ripudiata la moglie legittima, aveva sposato Bertrada, agì con energia, mandando legati per intimargli di abbandonare la concubina. Al rifiuto essi risposero con la scomunica, pronunciata nel Sinodo di Poitiers. Ma poco dopo il re accolse il comando del papa, che influì efficacemente per la restaurazione dei costumi nella Corte franca.
Sul piano dell'attività ecclesiastica Pasquale è ricordato per aver concesso la prima indulgenza generale, (1116) e per le trattative, peraltro fallite, che condusse con l'imperatore bizantino Alessio I Comneno per la riunificazione delle chiese greca e romana.

Questo Papa fu indubbiamente partecipe del clima di rinnovamento spirituale collegato con la "riforma cluniacense". Infatti propugnò sempre la necessità di una chiesa povera, che, come tale, sarebbe stata più libera dai vincoli della politica nella sua azione spirituale, proponendo una soluzione radicale della lotta per le investiture: l'imperatore avrebbe abbandonato ogni pretesa consentendo libere elezioni canoniche, mentre i vescovi avrebbero rinunciato alle regalie e a ogni potere politico (ma non diventavano poveri perchè avrebbero conservato le decime e le oblazioni). Pasquale già a Sutri nel 1111, come abbiamo già accennato, aveva delle buone intenzioni in linea con le idee di Gregorio VII, ma non era questo papa, e lui non riuscì a capire che la sua riforma era prematura, che cozzava con la realtà dei fatti.

Pasquale a Sutri con la sua azione spirituale anticipava il concordato di Worms, pochi anni dopo concluso da papa Callisto e Carlo V (1122) e se lui non ebbe fortuna, non fu per il contrasto con Carlo V, ma per le reazioni delle gerarchie ecclesiastiche, soprattutto dei suoi vescovi principi che avevano un'altra concezione delle spiritualità.
Ed anche il breve pontificato del suo successore, potè fare ben poco. "Erano più di quarantacinque anni - scrive il Lanzani - che irriducibili contese mettevano sottosopra l'Italia e la Germania: anche se tutto aveva preso una specie di stanchezza o, dirò meglio, di sazietà. Tanto l'impero, quanto il papato si trovavano di fronte ad infinite contraddizioni di fatti e di principi".

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